CMOS contro CCD. Fine di un'era? - Pt 1
Differenze e proprietà del CMOS
di Mauro Narduzzi - Skypoint SrlDi recente stiamo assistendo al proliferare di camere dotate di sensori CMOS. In ambito reflex digitali e mirrorless la transizione verso la tecnologia CMOS pare ormai inarrestabile, per non dire che sia ormai compiuta. Anche in astronomia cominciano finalmente a presentarsi soluzioni mature che includono all’interno sensori con questa tecnologia, come ad esempio le camere ASI e QHYCCD.
D’altra parte è noto che il produttore degli efficientissimi sensori CCD Sony stia dismettendo l’intera produzione dei sensori basati su tecnologia CCD in favore della tecnologia CMOS. Il grande produttore ON Semiconductor, leader mondiale nel settore, ha ancora in produzione i celebri sensori CCD KAF e KAI inventati anni fa in seno a Kodak e che tanto successo hanno avuto negli ultimi 20 e più anni. ON Semiconductor non pare affatto intenzionato a cessare la produzione di sensori CCD e, anzi, ha rilasciato da non molto tempo il sensore KAF-16200 con formato APS-H che sta riscontrando un ottimo riscontro presso la clientela astrofila.
Insomma, il CCD ancora non è morto, ma di certo sta subendo una concorrenza sempre più agguerrita da parte del CMOS. E sono pronto a scommettere che tutto questo farà molto bene al mercato dei sensori per astrofotografia deep-sky. In astrofotografia planetaria ormai la tecnologia CMOS la fa già da padrona da diverso tempo.
Nel seguito di questo articolo si cercherà di parlare nel dettaglio delle differenze tecnologiche tra tecnologia CCD e tecnologia CMOS. Dopo una veloce infarinatura sulle caratteristiche salienti delle due grandi famiglie di sensori cercheremo di descrivere come utilizzare correttamente una camera CMOS per ottenere il massimo dei risultati in astrofotografia deepsky. Molte sono infatti le peculiarità cui tener conto e conoscerle a fondo consentirà di raggiungere risultati per certi versi sorprendenti.
Differenze tra le tecnologie CCD e CMOS FSI e BSI
Sia la tecnologia CCD che la tecnologia CMOS si basano sull’utilizzo di diodi fotosensibili. L’unità fotosensibile, il diodo, viene colpito da un raggio di luce che viene convertito in carica elettrica grazie al cosiddetto effetto fotoelettrico (il cui principio fu scoperto da Albert Einstein e che valse il Nobel per la Fisica nel 1921).
Il sensore CCD
In un sensore CCD, acronimo di Charged-Coupled Device (o Dispositivo ad Accoppiamento di Carica), la carica accumulata da ogni elemento fotosensibile (pixel) viene trasferita verso un numero limitato (spesso anche solo uno) di nodi di uscita per essere poi convertita in tensione e veicolata come un segnale analogico verso il convertitore analogico/digitale o A/D. Tipicamente il convertitore A/D ha una risoluzione di 16 bit corrispondenti a 65536 livelli di grigio.
Ciascun pixel ha il solo scopo di convertire la luce in carica elettrica e l’uniformità del segnale (caratteristica distintiva del CCD) è molto elevata. Anche il rumore è molto basso. L’elaborazione successiva del segnale avviene esternamente al sensore stesso e l’elettronica utilizzata deve essere piuttosto sofisticata. Ma per quanto sofisticata sia ha il grosso limite di introdurre un rumore di lettura piuttosto elevato se confrontato con la tecnologia CMOS.
Il sensore CMOS
Nel sensore CMOS ogni unità fotosensibile contiene la propria circuiteria per la conversione da numero di elettroni accumulati a tensione mentre ogni colonna contiene l’elettronica per la conversione digitale del segnale, eventualmente già normalizzata da filtri contro il rumore, ecc.
L’elaborazione del segnale avviene dunque ad alto grado di parallelismo e con un efficienza e una velocità totale di elaborazione del segnale molto elevata.
L’uniformità del sensore CMOS rispetto al sensore CCD è storicamente più bassa: è facile rilevare bordi illuminati (amp glow), righe verticali, risposta non uniforme dei pixel, ecc. ecc. Tuttavia la continua attività di ricerca di alcuni produttori hanno prodotto sensori sempre più efficienti e puliti. Tra questi vale la pena citare Canon, Panasonic, Samsung e soprattutto Sony i cui sensori CMOS sono ormai tra i migliori e più diffusi in ogni settore, compreso quello delle camere per astronomia, e rappresentano lo stato dell’arte in fatto di tecnologia CMOS. In particolare Sony è stata la prima a introdurre sul mercato, con la tecnologia proprietaria Exmor, il parallelismo della circuiteria per la conversione analogico-digitale e la riduzione del rumore. Si veda lo schema successivo.
Sebbene la complessità del sensore CMOS sia molto più elevata rispetto al sensore CCD, le economie di scala e la continua attività di ricerca hanno permesso di assottigliare sempre di più il gap, e di offrire quindi altissima tecnologia a costi sempre più accessibili.
Un’evoluzione interessante e molto recente che ha coinvolto la tecnologia CMOS è l’implementazione di sensori cosiddetti retroilluminati (o back-illuminated o BSI) in cui la circuiteria è posta sotto al fotodiodo sensibile, mentre nella tecnologia CMOS convenzionale (front-illuminated o FSI) la circuiteria è posta frontalmente all’elemento sensibile causando una certa diaframmatura che ne abbassa l’efficienza complessiva.
I sensori retroilluminati sono disponibili da tempo anche nelle camere CCD. Queste sono però tipicamente disponibili per il solo ambito professionale, dati i costi molto elevati e le caratteristiche intrinseche che le rendono usabili prevalentemente in campo scientifico.
Ancora una volta Sony è riuscita per prima ad introdurre nel mercato questa evoluzione del sensore CMOS, inizialmente con la sua tecnologia Exmor R, poi introducendo Starvis in seguito. La tecnologia Starvis è un’evoluzione della Exmor R nel senso che estende la campana di sensibilità anche verso il vicino IR. Il settore dell’imaging a bassa illuminazione gode dunque di sensori dedicati proposti a prezzi molto competitivi e dotati di sensibilità elevatissima. L’efficienza quantica è nell’ordine del 70/80% e anche oltre!
Questo tipo di sensori sta già trovando impiego anche in astrofotografia estetica, dapprima consoluzioni per l’alta risoluzione planetaria (si pensi ai sensori Sony IMX290 o IMX178 montati su molte camere per alta risoluzione come le QHYCCD QHY5III290), e più di recente anche su camere CMOS raffreddate pensate per la ripresa del profondo cielo (si veda la recente QHYCCD 183C dotata di sensore Sony Exmor R IMX183 a colori da ben 20 Megapixel).
Proprietà dei sensori CMOS
Come abbiamo visto dal punto di vista tecnologico le differenze tra sensori CCD e sensori CMOS sono profonde. Le differenze non si limitano solo a questo, vi sono altre proprietà importanti che vanno ad impattare anche sulle modalità d’uso. Conoscere tali differenze permetterà di ottenere risultati migliori da entrambi i tipi di sensori.
Alcune caratteristiche del sensore CMOS vengono dichiarate come profondamente limitative nei confronti del sensore CCD (prendiamo ad esempio la gamma dinamica molto ridotta). Ma è veramente così? Non proprio, e nel corso dei prossimi paragrafi cercheremo di capire perché.
Bassissimo rumore di lettura
I sensori CMOS di ultima generazione sono caratterizzati da un rumore di lettura (Readout Noise o RON) estremamente basso, nell’ordine di 1 o 2 e-. In pratica il contributo al rumore totale della camere CMOS nel processo di lettura del singolo frame è estremamente ridotto se comparato con il rumore di lettura tipico di una camera CCD. Questo garantisce ai sensori CMOS di ultima generazione una efficienza nettamente superiore rispetto ai CCD, efficienza che però deve essere valutata includendo anche le altre proprietà di cui andremo a parlare in seguito.
I migliori sensori CCD attualmente disponibili sul mercato, presi tra quelli commercialmente disponibili per il mercato amatoriale, raggiungono valori di rumore di lettura di 4/5 e-. Il popolare sensore CCD KAF-8300 raggiunge valori di 7/8 e- nei casi migliori. Valori di RON così elevati come nel caso del KAF-8300 vanno a compromettere parzialmente le prestazioni in condizioni di scarsissimo rapporto segnale / rumore (ad esempio nelle riprese a banda molto stretta) e costringono ad eseguire singole pose molto lunghe per cercare di limitare il più possibile il contributo del RON nello stacking finale.
Corrente di buio
Partiamo da un dato di fatto: nei sensori più recenti, sia che essi siano CCD o che siano invece CMOS, la corrente di buio (dark current), che ricordiamo aumentare con la lunghezza dell’esposizione e decrescere col calare della temperatura, ormai non rappresenta più un problema. Il livello di rumore accumulato nel tempo è talmente basso da poter addirittura fare a meno della calibrazione con dark frame e bias frame, a patto di riuscire a raffreddare sufficientemente il sensore.
Chi scrive fa spesso a meno dei dark frame usando un CCD basato sul diffuso sensore KAF-8300 raffreddato a -30°/-40°C, cercando però di integrare molti frame, eseguire un buon dithering e utilizzare tecniche di stacking con eliminazione dei cosiddetti outliers (ad esempio algoritmi di somma complessi come Sigma Clipping, SD Mask, …).
Con i sensori CMOS dobbiamo però tenere in considerazione le varie disuniformità che si possono rilevare sui frame. Ad esempio con i sensori CMOS è comune rilevare banding verticale o il cosiddetto amp-glow, un fenomeno di elettroluminescenza che può capitare sul bordo dei frame causato dall’elettronica stessa. L’amplificatore di lettura genera infatti continuamente calore (ossia radiazione infrarossa), calore che a sua volta genera elettroni sulla matrice di pixel del sensore. Questi elettroni si vanno a sommare agli elettroni che giungono sugli elementi fotosensibili dall’esterno, falsando il valore reale.
Normalmente questo fenomeno è visibile nelle fotografie a lunga esposizione (appunto perché l’amplificatore è acceso per parecchio tempo) e tende a concentrarsi in una zona ben definita del sensore (tipicamente nella zona più vicina all’amplificatore stesso). Nell’immagine qui a fianco (figura 6) la zona in alto a sinistra è molto chiara: l’alone chiaro è appunto l’amp glow.
È sufficiente eseguire una calibrazione con dark frame per eliminare questo alone, ma alcune soluzioni in commercio includono accorgimenti in grado di inibire la formazione dell’amp glow, anche se non sono in grado di correggere del tutto il problema. QHYCCD, ad esempio, con le sue serie di camere CMOS raffreddate tipo la QHY163M o la QHY183C ha implementato questo tipo di sistema che pare funzionare abbastanza bene.
Si noti che l’amp glow è un fenomeno che è possibile rilevare anche sui CCD, tuttavia i produttori hanno trovato già da tempo soluzioni efficaci per la completa soppressione di tale effetto.
Il gain (guadagno)
Una proprietà molto importante delle camere basate su sensori CMOS è la possibilità di variare il gain (o guadagno). Anche un sensore CCD ha un gain e un offset (di cui parleremo successivamente) che possono essere regolati, ma tipicamente questi valori vengono impostati in fabbrica dal produttore in modo tale da essere ottimizzati rispetto all’elettronica che accompagna il sensore, pena un decadimento netto delle prestazioni. Al più si hanno gain (e offset) diversi per differenti livelli di binning hardware (ciò non si applica ai sensori CMOS in quanto il binning avviene solamente via software, è dunque un binning fittizio).
Ma cos’è il gain? In ambito elettronico il gain è l’amplificazione del segnale luminoso rilevato dal sensore, convertito in tensione (Volt), per mezzo di un circuito di amplificazione dedicato. Il circuito di amplificazione riceve in input un valore di tensione che viene poi aumentato (amplificato) in output. Il gain si esprime dunque in e- / ADU.
L’amplificazione della tensione (ossia del segnale luminoso convertito da e- in V) consente di abbassare ulteriormente il rumore di lettura, a scapito però della gamma dinamica che viene fortemente compressa all’aumentare del gain. Questo è il compromesso di cui dobbiamo tenere conto, e la cui spiegazione risiede nel fatto che il convertite A/D ha una risoluzione fissa (ad esempio 12 bit).
Per questo motivo per le lunghe esposizioni è bene non eccedere col guadagno, mentre per le esposizioni molto corte è possibile alzare di moltissimo il valore di gain. L’ultimo caso si applica in particolar modo alle riprese in alta risoluzione di Luna e pianeti.
Se stabiliamo un gain pari 1 e- / ADU avremo il cosiddetto unity gain o gain unitario. Così facendo tramite il convertitore analogico / digitale (o convertitore A/D) andremo ad assegnare a ogni elettrone catturato esattamente un valore digitale o ADU (Analog to Digital Unit). In altre parole non vi sarà alcuna amplificazione o attenuazione del segnale in arrivo.
La differenza rispetto al CCD è in questo caso direttamente dipendente dall’implementazione tecnologica: nel CCD l’amplificazione avviene esternamente al sensore stesso tramite una circuiteria dedicata cui confluiscono i dati in arrivo dall’intero sensore, dunque vi è amplificazione sia del segnale sia del rumore stesso e questo rumore aumenta considerevolmente a gain particolarmente elevati. Nel CMOS, invece, l’amplificazione avviene attraverso una circuiteria dedicata a ogni colonna o addirittura a ogni elemento sensibile. Si modifica direttamente l’efficienza di conversione elettrone/tensione e vengono quindi forniti al resto dell’elettronica segnali già amplificati, di conseguenza meno sensibili ai disturbi. È per questo che il rumore di lettura nel CMOS è meno sensibile al variare del gain e anzi, alzando il gain si abbassa il rumore di lettura.
Una nota finale sull’implementazione della variazione del gain sulle camere CMOS. Tipicamente il valore di gain configurabile sulle camere CMOS non indica esattamente il valore di gain in e- / ADU, ma viene espresso usando scale differenti più facilmente memorizzabili. Per mezzo di opportune misure sarà possibile associare il valore di gain alla scala e- / gain e trovare così il valore reale dell’unity gain secondo la scala usata dal produttore della camera CMOS. Ad esempio le camere raffreddate QHYCCD Coldmos hanno valori di gain come 0, 7, 12, 15, 20, 30, ecc., ed il gain unitario nella camera CMOS QHYCCD QHY163M si ottiene impostando un gain software di circa 12.
L’offset (o livello di bias)
Oltre al gain esiste un altro parametro correlato che deve essere contestualmente regolato. Stiamo parlando dell’offset o livello di bias.
Lo scopo dell’offset è quello di incrementare il valore di bias del segnale. Dal momento che il segnale ha una sua fluttuazione statistica, è necessario indicare un valore fisso incrementale che viene aggiunto al segnale e che permetta di evitare valori negativi in lettura che non potrebbero essere gestiti dal convertitore A/D.
All’aumentare del gain sarà dunque necessario alzare anche il valore dell’offset. Come capire quale valore di offset impostare? Un metodo empirico di valutazione molto semplice è questo: per un prefissato valore di gain sarà necessario controllare che la campana dell’istogramma di un bias frame (una singola ripresa di tempo minimo possibile) non risulti tagliata, ovvero che non ci siano troppi pixel con valori ADU pari a zero. Se la campana risulta tagliata allora bisogna alzare l’offset. Inoltre bisognerà considerare un po’ di margine per le pose un po’ più lunghe, l’istogramma tende infatti a “spostarsi” verso sinistra (ossia verso il valore zero) all’aumentare della posa.
Nelle camere CMOS QHYCCD tipo QHY163M consiglio di impostare un valore di offset pari ad almeno 4 volte il valore del gain desiderato. Ad esempio a gain 12 corrisponderà offset 48.
Convertitore A/D a 12 bit e a 16 bit
Un’altra proprietà molto importante dei sensori CMOS è la risoluzione del convertitore analogico-digitale (A/D). Tipicamente questa è ridotta a soli 12 (in alcuni casi 14 bit, specie nei sensori CMOS destinati a fotocamere digitali), mentre nei CCD è di ben 16 bit.
Curiosamente una camera CCD per astrofotografia (lasciando da parte sensori ad uso scientifico) genera tipicamente una gamma dinamica molto bassa tanto che un convertitore A/D da 16 bit è spesso oltremodo sovradimensionato. Un sensore CMOS invece, grazie al rumore di lettura estremamente contenuto, è in grado di generare una gamma dinamica piuttosto elevata tanto che un convertitore A/D a 12 bit (capace di soli 4096 livelli di grigio) può essere limitante in quanto non in grado di discretizzare completamente tutta la gamma dinamica a disposizione.
Perché allora nei sensori CMOS la risoluzione del convertitore A/D è così bassa? Le ragioni sono per lo più pratiche. Non dobbiamo dimenticarci infatti che non sono sensori progettati appositamente per il mondo dell’imaging astronomico, quanto piuttosto per un uso generico in svariati ambiti. Probabilmente si è ritenuto che una risoluzione di 12 bit fosse un compromesso sufficiente, in grado di dare una profondità sufficientemente elevata unitamente ad una velocità di conversione sufficientemente veloce. Laddove è veramente necessaria una gamma dinamica più elevata (ad es. fotocamera digitali) allora la risoluzione del convertire A/D è generalmente di 14 bit (pari a 16384 livelli) e la velocità di conversione cala drasticamente.
Un vantaggio tangibile dato da un convertitore a bassa risoluzione è la velocità di conversione estremamente elevata oltre ad un’ampiezza di banda generata non troppo grande. Se pensiamo al flusso dati generato da una camera per alta risoluzione, capace di generare tantissime immagini per ogni secondo, si capisce che inviare un flusso dati a 12 bit sarà enormemente meno impegnativo che inviare un flusso dati a 16 bit. Anzi, in alta risoluzione si tende tipicamente a ridurre addirittura a 8 bit così da avere un flusso dati ancora più veloce per poter alzare ancora di più il numero di frame per secondo e godere appieno dei vantaggi del lucky imaging.
Dobbiamo anche considerare il fatto che all’aumentare del numero di pose si assiste anche ad un aumento della dinamica. Siccome i sensori CMOS godono di certi vantaggi quando usati con tempi di posa molto brevi, a patto di integrare tantissime immagini, si capisce che anche un convertitore A/D a bassa risoluzione possa essere sufficiente. Approfondiremo più avanti questo importantissimo aspetto.
Alta efficienza quantica
L’evoluzione tecnologica dei sensori CMOS ha consentito di raggiungere valori di efficienza quantica (QE) molto elevati, quanto - se non oltre - i migliori sensori CCD. L’uso combinato di microlenti ed eventualmente della retroilluminazione (come nei sensori CMOS Sony Exmor R e Starvis) consentono punte di 70% circa di QE, con picco di sensibilità generalmente nel verde.
Dimensione dei pixel
L’unione di alta efficienza quantica e basso rumore di lettura conferisce un’altissima efficienza globale del sensore CMOS se confrontato al sensore CCD. Tipicamente però tale efficienza viene parzialmente limitata dalla piccola dimensione dell’unità fotosensibile (il pixel), quasi sempre inferiore a 5 micron con poche eccezioni. Questo implica tutta una serie di effetti positivi e negativi che sarebbe difficile elencare completamente. Qui accenniamo solamente ad alcuni che sarebbe opportuno tenere in considerazione.
Di positivo c’è sicuramente che la risoluzione, a parità di ottica impiegata, aumenta notevolmente rispetto ad un CCD consentendo quindi di registrare dettagli più piccoli. D’altro canto la maggior risoluzione disponibile potrà mostrare più facilmente (o rilevare nel caso in precedenza non fossero visibili tramite un sensore CCD) eventuali difetti intrinseci all’ottica.
Si puntualizza però che non è colpa della ridotta dimensione se ora vedremo qualche difetto ottico in più. L’ottica è sempre la stessa, piuttosto era il CCD usato in precedenza che non possedeva sufficiente risoluzione per mostrare il difetto. Sfortunatamente pixel piccoli non concedono nulla: le ottiche devono essere molto ben corrette pena il manifestarsi di aberrazione varie.
Un pixel molto piccolo tenderà inoltre a produrre immagini sovracampionate rispetto al seeing medio italiano. I telescopi a focale piuttosto lunga e in generale i telescopi a rapporto focale lungo saranno quelli più penalizzati. Ma, come vedremo successivamente, il limite inferiore di campionamento potrà essere decisamente meno restrittivo rispetto a quello imposto da un CCD.
Un altro lato negativo è la perdita di sensibilità di un fotodiodo così piccolo (1-3 micron) se confrontato col fotodiodo di un sensore CCD, generalmente compreso tra 5 e 9 micron. La perdita di sensibilità viene però parzialmente compensata dall’uso di tecnologie in grado di aumentarne l’efficienza quantica, come la sopraccitata retroilluminazione, e dalla superiore efficienza globale di un sensore CMOS.
Interpretazione del sensore CMOS
Fino ad ora abbiamo parlato delle differenze tra sensori CCD e sensori CMOS senza dare un’interpretazione dei dati forniti. Dal momento che stiamo parlando di sistemi elettronici piuttosto complessi in cui molti fattori concorrono alla creazione dell’immagine finale, è giunto il momento di mettere assieme tutti gli elementi e dare qualche interpretazione, che si tradurrà poi in un impiego pratico sul campo.
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Vi diamo appuntamento sempre qui, sul nostro blog, per la seconda parte del nostro articolo!